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IL CAMPO

La nave stava ormeggiata nel porto, a poca distanza da noi. Potevamo vederla, vedere le sue ciminiere fumanti, sembrava a portata di mano, ancora uno sforzo e ci saremmo arrivati, era la nostra speranza di tornare a casa, a Bari, in Italia. I tedeschi continuavano a bombardarci, con i cannoni e con gli aerei. Al terzo giorno di cannoneggiamento sul forte, vedemmo la nave allontanarsi, dopo aver imbarcato le salmerie e le furerie. Fummo lasciati soli. E dopo poco una granata tedesca penetrò nella feritoia della ridotta, dove stava il cannoncino da 75 mm. che ben ci aveva difeso fino allora dagli attacchi del nemico. Morirono così 60 nostri commilitoni, ed a noi non restò che arrenderci.

Tutto il battaglione di alpini "Exilles", forte di 1100 uomini, fu fatto prigioniero dai tedeschi e tutti fummo internati nei campi di concentramento. Cominciammo col fare 70 km di corsa, zaino in spalla, controllati a vista dai tedeschi, che sparavano senza pietà a coloro che si fermavano per urinare. Capimmo velocemente la lezione. Poi fummo stipati su un carro merci, come legname, o bestiame, e per 12 giorni viaggiammo su quei carri, fino a Stettino. Il primo periodo di internamento fu quasi delizioso: raccoglievamo patate, c'era da mangiare, coperte per scaldarci, eravamo considerati dei lavoratori. Ma durò poco.

Chiesero a tutti di aderire alla repubblica di Salò. Quasi nessuno accettò. Una mattina di novembre ci dissero di raccogliere la nostra roba, i nostri stracci, e ci trasferirono al campo di concentramento di Buchenwald. La vita, la nostra vita cambiò. Tanto per cominciare fummo rinchiusi per 12 giorni sotto un tendone, con 2 pasti in tutto. Non 2 pasti al giorno, due pasti in 12 giorni. E poi ci destinarono ai vari compiti: a me toccò la pulizia dei vagoni cisterna dove veniva depositata la benzina, a volte il fondo da pulire era poco spesso , ma a volte aveva uno spessore di quasi un metro, e bisognava pulire tutto entro la giornata.

Si lavorava dalle 6 del mattino alle 6 di sera, e se non riuscivi a fare tutto ciò che era richiesto, erano botte, punizioni, e niente mangiare. Cioè il mestolo di rape. Odio le rape. Ed era fortunato chi capitava alla fine del pentolone, dove la brodaglia era più densa. Odio le rape, ancora oggi. Ogni settimana c'era la pesa: chi scendeva al di sotto dei 48 kg era destinato immediatamente al forno crematorio. E allora si inventava di tutto per riuscire a non scendere sotto quel peso. L'importante era rimanere vivi. Ero riuscito a salvare l'orologio, era sfuggito alle perquisizioni, nascondendolo dietro il tallone del piede, celato dallo scarpone. Ma il bisogno di mangiare, per poter lavorare e poter vivere, fu più forte.

Con l'aiuto di un tedesco anziano che ci faceva da guardiano, ma che in fondo ci compativa un po', riuscii a scambiarlo con dei buoni per il pane. 5 giorni di pane. Ebbi da mangiare, eppure sembrava così poco. Ma finì anche quello. Tornai a dimagrire. Poi arrivò un pacco da casa, con qualche galletta, qualche scatoletta, un po' di tabacco.

Avrei voluto mangiare tutto, ma... e gli altri? Tutto fu diviso, eravamo di Marcorengo, di Verrua, di Cavagnolo, ugualmente affamati, ugualmente disperati. Ma volevamo vivere. Il tabacco non lo divisi tutto, una parte lo scambiai con altro pane. Altri giorni di vita. Scrissi a casa chiedendo che mi mandassero tabacco. Ogni tanto arrivava un pacco, un po' di vita, un altro scambio tabacco-pane. Non ho mai saputo come facessero i miei a procurarselo, non gliel'ho mai chiesto. Tra i morti, la fatica, la disperazione, il dolore, la desolazione, le angherie dei tedeschi, riuscimmo a sopravvivere. Poi arrivarono i bombardamenti alleati, altro terrore e morte, altra fame. Furono 92 settimane di internamento. Seppi poi che mio padre era stupito delle mie richieste di tabacco, non poteva immaginare a cosa mi servisse, non ero un gran fumatore...

Era la differenza tra il fumo dei forni crematori, ed il profumo della vita.

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